21/05/2025

Vedere al buio  e decidere in condizioni di incertezza alla guida di non vedenti. Di Stefano Verza (*)

Come psicologo del lavoro non posso che rammaricarmi nel vedere che il potenziale di moltissime donne e uomini disabili rimane non utilizzato e, probabilmente, nemmeno riconosciuto. Questo è un dato di fatto inconfutabile. Il rammarico è doppio: in primo luogo per la persona che non può esprimere se stessa e i talenti che comunque possiede; in secondo luogo per le organizzazioni e il paese in generale poiché secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’inserimento a regime del potenziale inutilizzato frutterebbe un rialzo del Pil su scala globale tra l’1 e il 7%.

(http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-12/disabili-lavoro-barriere-italia-130913.shtml?uuid=AbwuYfDI)

Se poi si naviga in internet si trovano tranquillamente articoli, news e post che danno il polso della situazione reale, che è assolutamente vergognosa.

Ecco alcune perle:

  • La Corte di Giustizia Ue ha recentemente bocciato l’Italia sulle norme per l’inserimento professionale delle categorie protette in quanto è venuta meno agli obblighi derivanti dal diritto comunitario a causa di un recepimento incompleto e non adeguato di quanto previsto dalla direttiva varata alla fine del 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

  • Secondo i dati Istat del 2012, solo il 16% delle persone affette da disabilità con un’età compresa tra i 15 e i 74 anni ha una collocazione lavorativa. Quasi tre volte meno dello Zambia (45,2%) e neppure la metà della percentuale del Malawi (42,3%).

  • Secondo un’indagine di Reatech Italia, buona parte dei datori di lavoro ricorre all’esonero parziale, svincolandosi dall’obbligo di assunzione con il pagamento di una sanzione di 11.184 euro: è “più comodo pagare la cifra prevista di attivare l’iter per l’assunzione di disabili”. (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-12/disabili-lavoro-barriere-italia-130913.shtml?uuid=AbwuYfDI)

  • La sospensione degli obblighi di assunzione di lavoratori disabili è prevista dall’art. 3 – comma 5 della legge 68/99 qualora il datore di lavoro stia attraversando un periodo di crisi aziendale ed occupazionale.

Fortunatamente però cercando con pazienza e attenzione si rintracciano anche iniziative lodevoli e positive come ad esempio la notizia postata a luglio su www.Linkiesta.it che riguarda un’iniziativa finanziata dalla Fondazione con il Sud con 280 mila euro, che rientra nell’ambito della linea di intervento “Progetti Speciali e Innovativi”. Questa iniziativa (che avrà luogo in Sardegna) riguarda un’Agenzia per l’inserimento sociale e lavorativo dei disabili, che coordinerà una serie di servizi e attività. In particolare, verranno realizzati un centro propedeutico al lavoro, un centro socio-occupazionale e un centro per attività laboratoriali e produttive, che accoglieranno e accompagneranno i destinatari del progetto in percorsi formativi, di crescita personale e professionale. Inoltre è previsto un servizio di counselling, rivolto anche alle famiglie, e uno di orientamento formativo e professionale.

Nonostante tutto, comunque, forse in Italia manca ancora qualcosa a monte: una cultura dell’integrazione delle disabilità.

Per meglio capire cosa intendo riporto un’esperienza di qualche anno fa che mi ha visto lavorare con alcune persone cieche. Si trattava di un’esperienza formativa proposta alle aziende sul tema dell’incertezza (intesa come affrontare il cambiamento valorizzando la forza del lavoro in team) che prevedeva di lavorare nel buio assoluto sotto la supervisione di “guide” non vedenti.

Il mio approccio è stato subito caratterizzato da una stretta sinergia tra le mie competenze di psicologo del lavoro e la “realtà di vita” di una persona cieca, poiché io conoscevo solo gli obiettivi formativi che voleva ottenere l’azienda e le capacità che dovevo stimolare nelle persone che avrebbero partecipato al corso, ma solo loro avrebbero potuto dirmi se le mie ipotesi avrebbero portato qualche risultato concreto. Per cui – in sostanza – ho cercato di trasferire al meglio quello che avrei voluto che i partecipanti al corso apprendessero per dar modo alle guide non vedenti di pensare a tutto quello che sarebbe stato possibile sperimentare attraverso il buio. L’intervento formativo del resto era in mano loro, io una volta terminata la formazione mi sarei occupato solo di legare quanto fatto al contesto aziendale.

La prima reazione è stata di perplessità e timore: avevano paura di non essere all’altezza, non avendo mai fatto una cosa simile in precedenza. Ho provato a tranquillizzarli dicendo che sicuramente avrei sbagliato di più io ragionando con la mia testa. Il succo del mio messaggio è stato: io non sono cieco e non posso sapere cosa vuol dire esserlo e viverlo e sarebbe anche presuntuoso pensare di sapere cosa vuol dire esserlo. Siate liberi di fare quello che sentite sia giusto anche se non in linea con gli obiettivi formativi, non preoccupatevi d’altro. Al termine il mio lavoro sarà quello di far comprendere alle persone perché hanno sperimentato certe cose e quello che può servire loro rientrati in azienda.

Da questo momento si è sviluppata subito una relazione profonda e intensa che mi ha consentito di vivere una delle mie esperienze di vita, ancor prima che lavorative, più ricche ed appaganti: ho trovato nelle persone cieche che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere umanità, voglia, passione, curiosità e soprattutto delle potenzialità inespresse che hanno dato loro un’identità alternativa.

In estrema sintesi per dare un’idea (prendendo ad esempio il tema dell’incertezza) le “guide” cieche – all’interno di ambienti costruiti per ricreare il buio assoluto – portavano un gruppo di massimo 12 persone attraverso un insieme di esercizi (che congiuntamente avevamo precedentemente progettato) a valorizzare le risorse personali, a sviluppare fiducia reciproca e coesione, nonché a cooperare per riuscire a superare un’esperienza per certi versi anche angosciante per un vedente come quella del buio totale. La mia presenza all’interno degli ambienti era solo di supporto al lavoro delle “guide”, finalizzata a fornire in caso di bisogno rassicurazioni o spunti. Tornati alla luce, sempre coadiuvato da una persona cieca, operavo la rilettura dell’esperienza vissuta dandole la giusta valenza per la vita organizzativa. Grazie alla presenza e al confronto aperto con la guida, comunque, la rilettura diveniva un momento di reale arricchimento e di crescita anche dal punto di vista personale, aspetto forse ancor più importante. Ma quello che reputo fondamentale è l’inversione di prospettiva che queste esperienze portavano: eravamo noi vedenti una volta tanto a doverci “includere” in un altro mondo , ma cosa ancor più significativa è che mai saremmo stati esclusi. Riporto un aneddoto assolutamente esplicativo. Nel corso di un esercizio al buio ero come sempre un po’ in disparte per non intralciare e mi si è avvicinata una “guida” cieca che mi ha detto: “Stefano vieni, vieni a vedere cosa stanno combinando”; le ho risposto “ok ci provo, faccio del mio meglio”: ci siamo fatti una risata sommessa per non disturbare. Poi me lo ha raccontato e ho potuto vedere anch’io cosa avevano combinato.

Dopo qualche anno, soprattutto a seguito della crisi (ma non solo), l’esperienza si è conclusa e il mio rammarico riguarda principalmente il fatto che gradualmente molti atteggiamenti hanno riportato le persone verso un unico ruolo sociale, quello del disabile “prototipico”, con il suo insieme di emarginazione, svantaggio esistenziale, esclusione e discriminazione (come ben scrive Alessio Nencini “La costruzione dell’identità disabile” http://www.academia.edu/2051329/La_costruzione_dellidentita_disabile)

E questo solo perché gli manca la vista. Tra l’altro uno degli aspetti più ipocriti che dal mio punto di vista esiste è quello di credere (anche se spesso fa comodo crederlo) che sia l’usare una parola piuttosto di un’altra a dare la giusta dignità alla persona, che magicamente gli conferisca un’altra identità o non la faccia sentire esclusa. A volte nello scrivere ho utilizzato la parola “cieco” altre volte il termine “non vedente”, perché come mi ha detto una volta un cieco: “non importa la parola che utilizzi, ma il tono con cui la dici … puoi utilizzare il termine morbido e artificioso di non vedente e non per questo perdere il tuo atteggiamento sprezzante, di compatimento o quant’altro.”

Detto questo prendo spunto per segnalare che dal 17 al 26 ottobre a Milano avrà luogo il Festival della Cultura Psicologica http://festivalculturapsicologica.com/ un’occasione a mio avviso interessante per valutare la possibilità di operare congiuntamente su questo tema. 

(*) Psicologo del lavoro e delle organizzazioni

Un commento su “Vedere al buio”
  1. Sono segnali che danno speranza. a tutti l’invito a lavorarci….peccato il festival stia per concludersi. ciao!!! 🙂

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *